Scrittori arabi, tragedia e farsa
di Elena Loewenthal
La Stampa, 2 marzo 2004
Come capita persino troppo spesso, c’è una suocera che mette i bastoni fra le ruote: «Forse un giorno riuscirò a perdonarvi di averci tenuto sotto coprifuoco per 34 giorni consecutivi, ma non riuscirò mai a mandare giù che ci abbiate costretti a vivere con mia suocera per quelli che, allora, ci sono sembrati 34 anni», dichiara Suad Amiry rivolgendosi agli israeliani in generale e al primo ministro in particolare, nel suo diario di guerra da Ramallah, che Feltrinelli pubblica sotto il titolo Sharon e mia suocera, nella cura di Maria Nadotti (€ 8,50).
Anche Rashud, novello sposo o quasi, deve fare i conti con lo zampino onnipresente della madre di sua moglie. O meglio, con l’irresistibile attrazione che la casa materna continua a esercitare sulla giovane e avvenente consorte, che farebbe di tutto pur di non dormire accanto a lui. Certo, a casa di mammà dimora anche la tentazione della televisione via cavo. Che, insieme alla suocera e al vizio di una sconsiderata emissione di seme, rappresenta il trittico di ossessioni dentro E chi se ne frega di Meryl Streep, graffiante romanzo di Rashid Daif pubblicato da Jouvence (€ 9).
È questo uno dei tanti volti che disegna la nuova narrativa di un mondo arabo esteso non solo geograficamente – dall’Algeria al Libano, dal Marocco alla Palestina – ma anche nei connotati linguistici: Rashid Daif, nato in Libano nel 1945, scrive in arabo, Suad Amiry, palestinese, scrive in inglese. Yasmine Chami, invece, che è nata a Casablanca nel 1967 ed è al suo primo cimento narrativo con Cerimonia (Il leone verde edizioni, € 11), usa il francese, che è anche la lingua madre di Samira Bellil in Via dall’Inferno (Fazi, € 13,50).
Tale pluralismo espressivo è in fondo lo specchio di una varietà di temi che spesso si fatica a riconoscere in una letteratura considerata «emergente», per lo meno nel suo affacciarsi verso l’Europa e l’Occidente in generale. In particolare l’universo della scrittura femminile all’interno del mondo arabo è interpretato talvolta attraverso la lente univoca dell’atto di denuncia, del romanzo «manifesto».
Ma è non sempre e soltanto così. Nel libro di Rashid Daif, in cui l’autore condensa tutto il talento ironico di una tradizione millenaria, si racconta lo spassoso fallimento di un machismo esagerato, che risulta improbabile, grottesco; il coltello dalla parte del manico l’ha indubbiamente l’irresistibile moglie (insieme alla perfida madre di lei), che si concede – di rado – alle inestinguibili voglie del marito manifestando una noia mortificante, mentre quest’uomo sottoposto all’arbitrio capriccioso della moglie vive pigramente alla giornata, prono ai rituali del proprio desiderio sessuale.
Il sarcasmo è un’arma letteraria formidabile, tanto in questo caso come nel diario di Suad Amiry, in cui l’attualità contingente del dramma è lo sfondo di una convivenza talmente forzata da diventare surreale: «Ero seduta al tavolo di cucina e stavo mangiando un po’ della marmellata d’arance appena fatta, quando hanno suonato alla porta. Era Sari, il mio vicino tredicenne, che insieme al fratello di dieci anni, Basil, riesce di tanto in tanto a farmi fare quattro risate con gli esilaranti video del loro karaoke. In uno dei film Sari indossa gli abiti della madre, interrotto dalle risatine di Basil, il cielo di Ramallah invaso dagli elicotteri Apache israeliani, sullo sfondo un soldato che fa pipì dietro a un carro armato».
Tutt’altro tono abita il romanzo di Yasmine Chami, dove due cugine si ritrovano nella casa della loro infanzia, e discorrono con nostalgia, ma anche e soprattutto con la pacata padronanza dei propri destini. Del resto non sono nemmeno qui donne succube, per le quali la scrittura è l’unico sbocco verso una libertà che la vita nega del tutto.
Ma c’è anche una letteratura araba dal fronte del sopruso: Piemme manda in libreria in questi giorni le memorie di Suad. Il libro ha venduto in Francia più di 300 mila copie, e s’intitola Bruciata viva (€ 14,90), che non è una metafora. Molti anni fa in un villaggio della Cisgiordania la giovane Suad venne cosparsa di benzina e poi accesa dal cognato, che il resto della famiglia aveva spedito a far giustizia dopo che Suad aveva disonorato tutti con una gravidanza da nubile.
Il racconto ha ancora tutta l’intensità di un’esperienza che sembra trascorsa appena ieri. Samira Bellil scrive anche lei dalla Francia, dove nel 1998 la polizia ha arrestato 994 minori accusati di stupro su ragazze minorenni. Anni fa toccò a lei, in uno di quei sobborghi metropolitani dove il melting pot etnico si amalgama in un degrado comune. Insieme a José Stoquart ha poi messo per iscritto la sua storia di schiavitù, usando un francese sincopato, a dentri stretti. Malgrado la misura rigorosamente autobiografica, anche questi racconti possono e vanno considerati come prove letterarie, perché la narrativa diventa la forma paradossalmente più autentica e attendibile per tessere una realtà vissuta.
La tragedia e la farsa, l’introspezione e il grido di denuncia, la poesia e la cronaca straziata testimoniano dunque di un panorama letterario, come quello che oggi offre il mondo arabo in senso lato – e con un occhio particolare verso la scrittura femminile -, difficilmente catalogabile entro schemi formali o di contenuto. Ma proprio per questo carico di quella forza d’attrazione che è la capacità di sorprendere il lettore.